Il cibo è un importantissimo tratto culturale. Tale affermazione è ovvia se pensiamo che il genere homo sapiens sapiens pur essendo onnivoro non consuma le stesse vivande. Ciascuna cultura infatti predilige alcuni cibi e ne scarta altri. Un detto di antica memoria recita: siamo ciò che mangiamo. E’ un fatto consueto identificare determinate vivande alle rispettive civiltà. Ma come sappiamo la cultura non deve essere concepita come un universo chiuso e immutabile, infatti essa si trasforma nel tempo per il tramite delle pratiche dei contatti culturali. Il fenomeno migratorio è pur sempre un fatto umano e, nel lento processo di scambio interculturale cui il migrante è sottoposto, insorge la necessità di affermare la propria identità grazie ad alcuni elementi che egli percepisce come appartenenti alla propria cultura. Proprio il cibo è uno di questi elementi, forse tra i più importanti, che contribuisce in maniera determinante al processo di costruzione identitaria di un individuo o comunque di un gruppo etnico.
Relativamente al contesto culinario, una delle prime difficoltà che un soggetto migrante deve affrontare è l’adattamento alle abitudini ed ai nuovi gusti, sovente mai sperimentati, della nuova cucina. Ma queste non sono le uniche difficoltà riscontrabili nel migrante. All’alimentazione si collegano spesso i sentimenti nostalgici, le rievocazioni di ricordi legati alla terra d’origine e le inquietudini di un migrante che, immagina un mondo là,e ne ricostruisce un altro qui. Insomma il cibo non è riducibile esclusivamente a mera pratica di soddisfacimento di un bisogno fisiologico: << evoca e in qualche modo presentifica un luogo antropologico, fatto di parole, memorie, ricordi, storie, persone, relazioni. Attraverso il mangiare, si snoda, si consuma, si risolve, talvolta si rafforza la nostalgia del luogo di provenienza. Si misura il tipo di legame che con esso si continua ad avere >> [1] .
Ma il cibo oltre a svolgere un ruolo pregnante nel processo di costruzione dell’identità, funziona anche da mediatore culturale tra gruppi umani etnicamente diversi: è più facile mangiare il cibo << altro >> che parlare la lingua << altra >>. Non devo cioè conoscere l’arabo per assaporare il chebab; viceversa non devo essere necessariamente siciliano per apprezzare la cucina mediterranea. Il cibo può essere dunque, riconducibile ad un << linguaggio nel quale la società traduce inconsciamente la propria struttura o addirittura rivela, sempre senza saperlo, le proprie contraddizioni >> [2]. Così come il linguaggio, la cucina << possiede vocaboli (i prodotti, gli ingredienti) che si organizzano secondo regole di grammatica (le ricette, che danno senso agli ingredienti trasformandoli in vivande), di sintassi (i menu, ossia l’ordine delle vivande) e di retorica (i comportamenti conviviali) >> [3] . Quindi al di là della sua importanza come fattore di affermazione identitaria, il cibo è anche mediatore culturale: strumento di contatto tra due civiltà, tra due gruppi sociali, tra due individui che, prevede l’abbandono momentaneo delle proprie categorie culturali, presuppone fiducia nell’altro, in colui che ci prepara e ci offre un alimento sconosciuto.
La cucina è allora << la soglia più accessibile di una cultura. E’ la soglia più bassa di un confine. Mangiare la cucina degli altri significa attraversare questa soglia >> [4]( Per usare altre parole, il consumo di vivande è sicuramente una interazione sociale: un incrocio di significati che contribuiscono alla creazione dell'identità collettiva ed individuale. Così ad esempio la “cucina di strada” palermitana, studiata da Giallombardo, rimanda ad un codice di lettura ben preciso: la forte connotazione maschile e la netta contrapposizione alla cucina domestica, tradizionalmente attribuibile alla sfera femminile. Stigghiuòla, mussu, quarumi, frìttula, pani ca mièusa sono << cibi per uomini quindi, non solo perché si consumano in ambiti e con modalità che a essi più si confanno […], ma soprattutto perché si violano le regole della tavola domestica, manifestando così un autonomia tutta maschile. […] In qualche modo […] fungono da prove iniziatiche, da meccanismi inculturativi per accedere all’universo dei valori dei maschi adulti >> [5]. Dunque mangiare questi tipici alimenti palermitani è sia segno di una certa appartenenza sociale, ma è anche segno di un’adesione ideale di quei comportamenti che - in contesti ad esempio quali i quartieri di Ballarò o Vucciria – sono attribuibili agli uomini.
Per il fatto che è un fondamentale tratto culturale e assume il ruolo di mediatore tra civiltà e individui diversi, nonché soggetto attivo nella costruzione identitaria, il cibo è sempre suscettibile di trasformazione. Può essere cioè soggetto a variazione, sfociando a volte in un vero e proprio processo di ibridazione culinaria. Il processo migratorio in questo senso ci da ampi esempi. Ne cito qui uno: Il cous-cous. Esso può essere a base di carne o a base di pesce. Questo è sicuramente dovuto al fenomeno delle pratiche dei contatti culturali che, ha prodotto un incorporazione di elementi e pratiche culinarie << altre >>, all’interno di una data cultura; il tutto utilizzando quegli alimenti tipici che di volta in volta i rispettivi contesti territoriali offrivano. Data la sua enorme diffusione, oggi il cous-cous è divenuto un piatto tipicamente mediterraneo.
Così come avviene per la cultura, il cibo può essere soggetto ad estesi fenomeni omologanti che, destrutturano quel mondo di significati a cui rimanda. La mecdonalizzazione sarebbe un esempio di questo tipo. La globalizzazione dei mercati finanziari ed economici, nonché quella dei modi di produzione standardizzati con il conseguente impoverimento culturale, hanno prodotto un industria alimentare mondiale sempre più, unica, fredda, priva di quei riferimenti sensoriali che da soli sarebbero in grado di attivare quel processo di identificazione culturale, processo necessario nell’ottica di una più agevole integrazione interetnica. In altre parole, venendo a mancare tutto quel complesso di riferimenti sensoriali (auditivi, visivi e cenestesici) - presenti nel cibo - capaci di attivare il processo di appartenenza ad un gruppo, l’integrazione tra culture diverse diventa una chimera.
Infatti l’identità esiste esclusivamente come specificità: può essere rappresenta come unione di tante differenze e non come esclusione dell’altro da sé. Di per sé non ci è data per natura: è possibile perciò, considerala come una costruzione e come ogni altra costruzione, necessita di una struttura attraverso la quale riconoscersi. L’ individuazione di tale struttura è prerogativa essenziale poiché va – funzionalmente – ad identificare l’appartenenza ad un gruppo, o come si direbbe oggi ad una comunità. Quello che avviene nell’era della globalizzazione culinaria è proprio lo smarrimento di questa struttura, struttura che è essenziale nel rivendicare una identità che si manifesta in relazione con l’altro.
Nella nostra Isola per fortuna il cibo conserva ancora la sua funzione identificante. << Per quanto attenuate da processi di omologazione, in Sicilia le differenze fra élites e ceti popolari nell’uso del cibo conservano a quest’ultimo alcuni degli scenari di senso, sia sacro che profano, nei quali permane la sua più antica funzione identificante. Elemento forte della festa, del gioco, della sfida ritualizzata, il cibo costruisce tuttora, attraverso le opposizioni fondanti in cui viene assunto e rappresentato, la dimensione mitica delle identità: sessuale, generazionale, locale, di censo. […] Come altre gastronomie regionali, quella siciliana ne testimonia la vivace persistenza con la complessità delle preparazioni legate ai contesti cerimoniali. Una cucina della guarigione e della grazia che costituisce un ricco serbatoio di cultura alimentare. Neanche nella prassi domestica, che la rappresentazione corrente spaccia irreversibilmente appiattita sul modello del fast-food casalingo, è possibile dichiarare la morte di questo sistema del gusto >>. [6]
In conclusione, mangiare non significa in modo esclusivo soddisfare la sensazione fisica della fame. Non si mangia solo per placare il brontolio dello stomaco, ma anche per soddisfare l’appetito e le proprie emozioni. Il cibo viene usato per festeggiare, calmare, per alleviare la noia e la depressione, e come consolazione nei momenti di tristezza e angoscia. Esso è espressione dei sentimenti: un piatto preparato con amore è differente da un piatto preparato con indifferenza; si può sedurre con la cucina, attraverso il potere evocativo di spezie, aromi, accostamenti audaci, colori, profumi.
Il cibo può essere considerato ancora come catalizzatore sociale, infatti la consumazione di un pasto è un momento privilegiato per comunicare: a tavola ci si riconcilia o si litiga, si fanno dichiarazioni o confessioni, si può addirittura affermare la propria identità individuale o collettiva. E’ tutte queste ragioni che il cibo può essere definito come l’anima di un sé (individuale o collettivo) che relazionandosi con l’altro, attiva un processo di costruzione identitaria
Bibliografia
-Giallombardo F. 2003, La tavola, l’altare, la strada. Scenari del cibo in Sicilia, Palermo, Sellerio
- La Cecla F. 1997, Il malinteso, Roma, Laterza.
-Lévi-Strauss C. 1971, Le origini delle buone maniere a tavola, Il Saggiatore, Milano.
- Tevi V. 1999, Il colore del cielo. Geografia, mito e realtà dell’alimentazione mediterranea, Roma, Meltemi,
Riferimenti Bibliografici
[1] Tevi V. 1999, Il colore del cielo. Geografia, mito e realtà dell’alimentazione mediterranea, Roma, Meltemi, p.84.
[2] Lévi-Strauss C. 1971, Le origini delle buone maniere a tavola, Il Saggiatore, Milano, p.445
3 Giallombardo F. 2003, La tavola, l’altare, la strada. Scenari del cibo in Sicilia, Palermo, Sellerio, p.19.
[4] La Cecla F. 1997, Il malinteso, Roma, Laterza.
[5] Giallombardo
F. 2003, Op. cit., p.133.
[6] Giallombardo F. 2003, Op. cit., pp. 11-12.