La distruzione identitaria della Sicilia e le esigenze di riproposta culturale


La valorizzazione del proprio patrimonio culturale e tradizionale è un concetto fondamentale della contemporaneità configurandosi, tra l’altro, come un vero e proprio paradigma teorico: il grimaldello che consente di aprire la serratura di quel progresso sociale, economico e culturale, tanto invocato ma così poco realizzato fino ad ora. Il progresso tanto invocato in Sicilia è stato inteso – purtroppo – come la progressiva distruzione di quella cultura tradizionale i cui valori accompagnavano l’uomo siciliano per tutto l’arco della sua esistenza, dalla nascita alla morte.

La Sicilia contemporanea, a causa di una storica politica assistenzialista e clientelare, viene a configurarsi come un’area di perenne transizione, senza sviluppo e senza progresso. Infatti, a una serie di visibili miglioramenti delle condizioni di vita dell’isola, concepibili come simboli della modernità, non si è accostato uno sviluppo dei modi di produzione. Il sistema neocapitalistico assieme a una politica di tipo assistenziale e clientelare, hanno concepito la Sicilia come area di consumo e non come area di produzione. Ciò ha reso ampia la domanda di lavoro nell’isola, nonché la volontà di attivare un avanzamento socio-economico da parte di quelle classi che una volta si dicevano subalterne. Quindi nel tempo si è prodotto, a diverse ondate, una serie di fenomeni emigratori verso l’estero, o comunque verso l’Italia settentrionale.

In questo panorama, la cultura tradizionale dell’Isola si è certamente trasformata a partire dalla fine dell’ottocento, ma in maniera decisiva, dagli anni cinquanta del novecento. Questa trasformazione si è manifestata, a causa di una progressiva eliminazione di tutti quei sistemi produttivi, attraverso i quali, si potevano individuare i tratti fondanti della cultura siciliana.

Esiste un elemento caratteristico in cui è possibile rintracciare i diversi tratti di una cultura unitaria dell’isola: il latifondo. Si può affermare, come dice Mario Giacomarra, che buona parte della cultura tradizionale della Sicilia si è venuta conformando sul latifondo: << il sostanziale conservatorismo dei proverbi, lo spirito di rassegnazione rilevabile nei racconti, la legittimazione del “ padrone ”… sono tutti tratti culturali di ascendenza latifondista >> [1]. Questa cultura, almeno fino agli anni cinquanta, << era il risultato di secoli di storia, di un’opera lenta e progressiva, di prestiti e innovazioni, di assorbimenti e selezioni, di una continua rielaborazione, insomma, cui per gli apporti esterni avevano contribuito le varie genti che si erano succedute o nel popolamento o nel semplice dominio dell’Isola, e che nel suo procedere in forma autonoma aveva trovato la condizione quasi miracolosa della sua omogeneità […]. Di fatto, tolto un numero limitato di famiglie […], tutta la società siciliana partecipava di un’unica cultura la quale sostanzialmente non presentava soluzioni di continuità neppure nel passaggio dalla campagna alla città >> .[2]

Dagli anni cinquanta in poi è possibile constatare il progressivo ed inesorabile declino di quei settori produttivi tipici. Le tonnare sono quasi del tutto scomparse, l’allevamento e l’agricoltura tradizionali sono in declino, l’attività estrattiva dello zolfo come pure le saline sono divenuti meri reperti archeologici di una memoria passata e non più riconosciuta. La produzione artigianale locale si è annullata obliterando quei principi artistici ispiratori dei carrettieri, dei pupari, degli artisti del vetro ecc. I tradizionali balli e le musiche tipiche sono ormai ignorati dagli isolani: nei quartieri popolari di Palermo, ad esempio, la musica in voga è prepotentemente quella neomelodica (Napoletana). Contestualmente, a causa del sempre continuo movimento emigratorio, i piccoli centri dell’isola si spopolano e nelle grandi città si assiste ad un’espansione urbanistica impressionante. Nell’uso del dialetto vi sono - a volte - atteggiamenti di repulsione, nonché di vero e proprio rinnegamento del proprio passato. Accanto a questi fenomeni, nel campo dell’occupazione lavorativa, si è registrato un aumento degli addetti al settore terziario e dei sottoccupati. Tale aumento è stato indotto, in parte, da quelle politiche clientelari ed assistenziali precedentemente accennate.

Se consideriamo che le iniziative derivanti dallo << sfruttamento del petrolio e dei Sali potassici hanno interessato solo un numero esiguo di individui la cui maggioranza per altro non appartiene alla popolazione locale >>, [3] ci rendiamo conto che il mutamento della società e della cultura siciliana deriva non dalla trasformazione delle strutture produttive esistenti, ma dalla loro progressiva eliminazione.

Lo strapotere delle società multinazionali, i fenomeni legati ai processi di globalizzazione dei mercati finanziari ed economici, l’imposizione dei dogmi e dei modelli culturali neocapitalistici - dominanti  e omologanti  per natura - presso quelle che una volta si dicevano le culture subalterne, hanno prodotto una nuova società moderna dove le vecchie categorizzazioni classiste vengono ad essere eliminate e con esse i propri sostrati culturali. In altre parole non esistono più le classi subalterne ( contadini, artigiani, operai e proletari in genere), né la cosiddetta classe borghese, né i nobili o gli aristocratici, né le cosiddette classi egemoni: la lotta di classe non fa più parte dell’orizzonte ideologico dell’ uomo consumistico. Oggi il popolo è divenuto un indifferenziato pubblico immerso in un orgia di beni superflui: l’uomo siciliano ha smesso di produrre quei beni necessari legati al soddisfacimento dei bisogni primari legati alla sopravvivenza e alla riproduzione, divenendo mero consumatore di merce - standard e superflua - prodotta sempre più dalle società transnazionali.

A fronte della perdita di quella realtà socioculturale tradizionale, agli studiosi e agli operatori nel settore dei beni culturali vengono ad imporsi due esigenze: la prima riguarda la conoscenza dei tratti fondamentali della Cultura attraverso lo studio delle tradizionali strutture di produzione, la seconda è relativa alla riproposta culturale concernente la valorizzazione del patrimonio culturale materiale e immateriale.

Salvo isolati ma brillantissimi casi di  studiosi, quali ad esempio Pitrè e Cocchiarra, solo a partire dagli anni settanta l’uomo siciliano prese Coscienza del sé e delle proprie trasformazioni culturali. A livello scientifico e accademico, la scuola antropologica palermitana di Buttitta focalizzò l’attenzione allo studio della Cultura Materiale in ottica semiotica. Alla luce di un maggiore e crescente livello di coscienza generale, vengono organizzati due congressi internazionali tenutisi a Palermo nel 1978 e nel 1980: << occasioni di confronto fra coloro che, con obiettivi e modalità differenti, si occupano professionalmente di cultura materiale >> . [4]

A livello legislativo si registra maggiore attenzione e sensibilità: i beni etnoantropologici, grazie alla legge regionale 80/1977, assumono rilevanza istituzionale. A seguito della legge regionale 37/1978 ( recante provvedimenti in favore dell’occupazione giovanile), tra il giugno del 1979 e il dicembre del 1980, viene effettuato il Censimento dei beni etnoantropologici. Vengono assunti per svolgere tale lavoro, sulla base di liste di collocamento speciali, due giovani per comune. Grazie alla sinergia di tutte le università siciliane, di intellettuali e di studiosi palermitani, si produce, ora, una dettagliata catalogazione e documentazione relativamente ai reperti della Cultura Materiale isolana.

E’ in questo momento che il Siciliano ri-scopre se stesso e prende Coscienza di un passato estinto eppure irrimediabilmente ancora presente. Si perviene, in altre parole, ad una seria riflessione sulla costruzione del sé sociale, storico ed economico. Sorgono nuovi stimoli. Emergono nuove figure sociali che si fanno promotrici di convegni, di dibattiti e di attività culturali. Fioriscono le esposizioni, le mostre e i laboratori didattici. Grandi, piccoli e modesti musei della civiltà contadina sorsero tra gli anni settanta e ottanta in maniera esponenziale: alcuni divennero stabili e duraturi nel tempo, altri ebbero un’effimera sorte. Fra la fine degli anni ottanta e gli inizi degli anni novanta gli interessi volti alla fruizione di tali beni culturali, sia in ambito delle mostre che in quello museale, diedero vita al Servizio Museografico e al Laboratorio Antropologico: << strutture interne alla Facoltà di Lettere di Palermo ma operanti in tutto il territorio regionale >>.[5]

Poi dopo quella memorabile stagione il nulla! Gli ormai anacronistici musei della civiltà contadina persero di interesse; anche i dibattiti cominciarono ad affievolirsi e l'entusiasmo scaturito svanì nel nulla. Ciò che mancò fu una concreta riproposta culturale, ovvero una nuova interpretazione dell'economica e della società.

Oggi, con l'avvento della digitalizzazione di massa e della << internettizzazione della società >> , si assiste prepotentemente a nuove ondate di fenomeni di omologazione culturale ed economica. Questi fenomeni, se da una parte migliorano ed efficientano le condizioni di vita e dei modi di produzione, dall'altro lato generano processi di smaterializzazione della società: i territori si svuotano e le comunità perdono i propri rifermenti culturali e geografici divenendo sempre più un'unica comunità globale con comportamenti ed abitudini standardizzati. A ciò aggiungiamo che la digitalizzazione, l'automazione e l'intelligenza artificiale generano, in molti ambiti diversi tra loro, i <<nuovi poveri>>,  ovverossia gli inoccupati. 
Oggi una nuova riproposta culturale potrebbe però cambiare le carte in tavola, garantendo novi possibili scenari. La riproposta a cui mi riferisco consiste nell'elaborazione di una strategia condivisa, basata su azioni coscienti e capaci di far rientrare nel nostro orizzonte ideologico quella cultura tradizionale all’interno della quale si inscrivevano i valori, i sogni, le inquietudini e i modi di produzione dell’uomo. Il recupero delle nostre tradizioni culturali quindi è un processo sempre in divenire, dove i cittadini dovrebbero essere i protagonisti coscienti del progresso della propria specie. In altri termini urge  rielaborare coscientemente e dinamicamente la nostra identità attraverso: il miglioramento e/o l'incentivazione di nuovi modi di produzione anche grazie  all'acquisizione e alla trasmissione di conoscenze derivanti dal know-how locale; l'incentivazione Pubblica di processi di rigenerazione urbana, soprattutto in contesti degradati,  e la trasformazione - senza sostituzione - dei sistemi produttivi ancora esistenti in un ottica eco-sostenible. Così, per concludere e a titolo meramente esemplificativo, si possono recuperare le tecniche produttive ed  artigianali tradizionali e, magari, riconvertirle in settori di nuovi, più moderni ed efficienti. In tale contesto il ruolo dei musei e delle Università dovrebbe essere essenziale. In tale riproposta istituzioni e cittadini dovrebbero marciare entrambi nella stessa direzione: ad azioni precise che nascono dal basso, dovrebbero corrispondere interventi normativi adeguati alle esigenze dei territori che, insieme alle comunità, ne costituiscono gli elementi fondanti di questo processo. Negli ultimi anni nuove dinamiche lasciano ben sperare: basti pensare a quei processi di rigenerazione urbana che, qua e la, più o meno in maniera spontanea e senza un reale coordinamento delle istituzioni, si sta verificando in Sicilia. La rigenerazione urbana, intesa come il recupero e la riappropriazione di spazi e contesti abbandonati potrebbe costituire uno dei tasselli fondamentali della nuova riproposta culturale dell'Isola. In questo senso i quartieri abbandonati, i centri storici o le periferie degradate, potrebbero giocare un un ruolo propulsivo di sviluppo e di progresso. In tali contesti si possono dunque creare le condizioni  ideali per il recupero di maestranze e  competenze, sia antiche che nuove, il tutto con lo scopo di innescare un'elaborazione consapevole del patrimonio identitario che da solo sarà capace di  valorizzare genius loci. Riconvertire gli spazi urbani  abbandonati dando loro nuovi significati, potrebbe garantire scenari inaspettati come il rilancio in chiave turistica dei territori, il rilancio dell'arte e della storia.

Stefano Siracusa



[1] Giacomarra M. G. 2004, Una sociologia della cultura Materiale, Sellerio, Palermo, p. 62.

[2] Buttitta A. 1977-78, Elogio della cultura perduta,  in  << Uomo e Cultura >>, a. X/XI,  n.19/22, pp. 218-19.

[3] Buttitta A. 1977-78, Elogio della cultura perduta,  in  << Uomo e Cultura >>, a. X/XI,  n.19/22, p. 222.

[4]  Cfr.  Giacomarra M. G. 2004, Una sociologia della cultura Materiale, Sellerio, Palermo, pp. 125-26.

[5]  Giacomarra M. G. 2004, Una sociologia della cultura Materiale, Sellerio, Palermo, p. 132.

.

Piu letti della settimana